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Disturbi Alimentari: perché il cibo è la mia prigione?

Quando mi dicono:  ‘Come stai bene!’ vorrei sprofondare sotto terra perché significa che sono grassa”;  “Mi sento enorme, ingombrante, vorrei essere invisibile”; “Sono ossessionata dal mio peso, penso costantemente al numero della bilancia e qualunque cosa mangio ho il terrore che quel numero aumenti e mi sento in colpa, uno schifo.”.

Questi sono alcuni dei vissuti angosciosi e maggiormente ricorrenti nella vita di una persona affetta da un disturbo del comportamento alimentare. Una vita dominata costantemente dal pensiero del cibo, delle calorie, del peso, da sentimenti di inadeguatezza.

I disturbi del comportamento alimentare (DCA) sono condizioni psicopatologiche in cui sono presenti forti preoccupazioni circa il proprio peso, la forma del corpo e comportamenti disfunzionali rispetto alle abitudini alimentari. I pazienti con DCA presentano, nella maggior parte dei casi, scarsa consapevolezza del disturbo.

I principali Disturbi del Comportamento Alimentare sono:

  • Anoressia Nervosa
  • Bulimia Nervosa
  • Disturbo da Binge Eating

Secondo la classificazione dei disturbi alimentari del DSM 5, l’Anoressia nervosa è caratterizzata da restrizione nell’assunzione di calorie che conduce a peso corporeo significativamente basso; intensa paura di ingrassare; comportamento persistente che interferisce con l’aumento di peso; alterazione del modo in cui viene vissuta la forma del proprio corpo. La Bulimia nervosa invece è caratterizzata da ricorrenti episodi di abbuffata, ossia assunzione in un determinato periodo di tempo di una quantità di cibo significativamente maggiore di quella che la maggior parte degli individui assumerebbe nello stesso tempo e in circostanze simili, e dalla sensazione di perdere il controllo. Il peso dei soggetti che soffrono di questo disturbo è nella norma o può presentarsi un lieve sottopeso o sovrappeso Inoltre sono frequenti inappropriate condotte compensatorie (vomito, lassativi, eccessiva attività fisica) per prevenire l’aumento di peso. I comportamenti compensatori generano un forte senso di vergogna, non solo in riferimento alla propria immagine riflessa allo specchio, percepita continuamente come inadeguata, ma anche rispetto alle quantità di cibo ingerite. Esiste, infatti, una stretta connessione tra cibo ed emozioni: tristezza, solitudine, rabbia, spingono a mangiare di più al fine di tollerare tali emozioni, ma subito dopo ci si sentirà insoddisfatti, e il circuito si ripeterà ancora e ancora. In entrambi i disturbi, i livelli di autostima sono eccessivamente influenzati dalla forma e dal peso del corpo. Il Disturbo da binge-eating è anch’esso caratterizzato da abbuffate, che avvengono anche in assenza di appetito e in tempi particolarmente rapidi fino a uno stato di sgradevole pienezza. La persona è quindi obesa o in sovrappeso, e le abbuffate vengono messe in atto in solitudine (per l’imbarazzo del quantitativo di cibo) e culminano in uno stato di disgusto verso se stessi e forti sensi di colpa. Non sono associate a condotte compensatorie.

Secondo l’orientamento sistemico-relazionale, il paziente con disturbo alimentare esprime un disagio che nasce e si consuma all’interno della famiglia d’origine. Secondo Selvini Palazzoli, la paziente o il paziente anoressico ha vissuto in famiglia un imbroglio relazionale: è stato coinvolto da un genitore in dinamiche di coppia mirate a ferire l’altro genitore. Il figlio si sente quindi ingannato e strumentalizzato (1988). Ovviamente, in questi movimenti relazionali i genitori non agiscono con la finalità cosciente di far “ammalare” il figlio, ma sono così immersi nei problemi col partner o familiari da non riuscire a tutelarne il benessere.

Secondo la Selvini Palazzoli, il processo che culmina con la malattia inizia con una fase di stallo di coppia tra i genitori. Il figlio o la figlia viene coinvolto in questo empasse, divenendo il  preferito dell’uno o dell’altra. Con l’avvento dell’adolescenza, la futura paziente (l’Autrice si riferisce prevalentemente a un soggetto femminile) si avvicina al padre, che lei vede come una vittima, anch’egli, della madre, con la quale la figlia vive un forte antagonismo. Solitamente a questo punto avviene la dieta, un evento che è in parte frutto dell’esigenza di differenziarsi dalla madre, di rendersi estremamente diversa e autonoma rispetto a lei – assumendo il pieno controllo su di sé e sul proprio corpo – in parte una sfida. Successivamente si verifica  il “voltafaccia paterno”: la figlia si sente tradita dal padre, che agli occhi della figlia si è coalizzato con la madre. A quel punto la paziente mette in atto il sintomo alimentare, un comportamento che segnala il proprio malessere in maniera lampante, attraverso le trasformazioni palesi di un corpo che, in maniera ambivalente, da una parte richiede attenzione e cura, dall’altra le rifiuta. L’individuo a quel punto sperimenta l’incredibile potere conferito dal sintomo, che modificherà gli equilibri relazionali della famiglia e che consentirà in qualche modo di riconquistare la posizione privilegiata dell’infanzia (Selvini Palazzoli, 1988).

Rimanendo nella cornice sistemico-relazionale, secondo Valeria Ugazio (1998), il disturbo alimentare nasce in famiglie il cui tema preponderante è quella del potere. Il messaggio che viene trasmesso implicitamente è che si è vincenti proprio perché si è determinati, si ha controllo di sé stessi e degli altri, mentre si è perdenti perché si è passivi, arrendevoli, in balia delle sopraffazioni degli altri. L’ anoressica diventa l’estremizzazione dell’individuo vincente; per gli obesi, invece, la loro imperfetta forma fisica è la conferma tangibile del fallimento a cui conducono la loro passività, arrendevolezza e mancanza di autocontrollo.

Potremmo quindi vedere l’anoressia come il tentativo di dimostrare, agli altri e a se stessi, la propria autosufficienza: l’anoressica non ha bisogno di niente e nessuno, né di cibo né di cure. È l’illusione di tenere sotto controllo tutto ciò che riguarda se stessi – il cibo, le calorie, il corpo – di sperimentare la propria onnipotenza e la propria vittoria – sugli istinti, sulla fame, sulla richiesta d’affetto.

Il soggetto affetto da bulimia o binge eating invece è una persona che tende a perdere il controllo, che non riesce a gestire le emozioni, impulsivo. Incapace di regolare e gestire i propri vissuti emotivi, si scaglia sul cibo per non pensare e per non sentire, per stordirsi. Qualunque malessere o frustrazione viene riversata a tavola, tentando col cibo di riempire un vuoto mentale (il malessere non viene elaborato in modo riflessivo) e/o affettivo (siamo spesso in presenza di una carenza di amore), punendosi.

Come intervenire in un quadro così complesso?

Nel modello Pluralistico Integrato gli obiettivi terapeutici principali sono tre (Spalletta E., 2010):

  • Ripristino di uno stato di salute soddisfacente attraverso l’assunzione di abitudini regolari circa l’alimentazione e l’eliminazione di comportamenti disfunzionali come l’abitudine di osservarsi e specchiarsi continuamente e il controllo compulsivo delle quantità di calorie contenute nel pasto. Questo è possibile attraverso un lavoro di equipe che coinvolga diverse figure quali il medico e il dietista, oltre il terapeuta. Questa fase del percorso terapeutico è caratterizzata da interventi di accoglienza empatica, informazione circa i disturbi, la motivazione al cambiamento e la costruzione di fiducia e alleanza terapeutica. Inoltre, è importante coinvolgere la famiglia nel trattamento poiché, nella maggior parte dei casi, tale contesto tende a configurarsi come fattore di mantenimento del disturbo in presenza di modalità relazionali invischianti e controllanti. In questo caso, i genitori vengono indirizzati verso gruppi psicoeducativi di supporto alla genitorialità o verso un trattamento familiare.

  • Il miglioramento della percezione di sé, promuovendo la consapevolezza dei fattori comportamentali che mantengono il disturbo e il riconoscimento dei pensieri disfunzionali che sottendono le decisioni e i comportamenti. L’obiettivo, in questa fase, è quello di liberare l’autostima dal vincolo del peso attraverso il recupero o la costruzione di un’identità corporea positiva. Si lavora sul concetto di sé ponendo l’attenzione sull’autoconsapevolezza e il nutrimento di sé.

  • Il miglioramento delle relazioni interpersonali, attraverso lo sviluppo di competenze comunicative, emozionali e di avvicinamento e intimità con l’altro. Parallelamente è fondamentale operare un lavoro esplorativo ed espressivo sulle emozioni, ovvero individuare il nucleo ansioso e depressivo celato dalla preoccupazione per il cibo, promuovendo la capacità di tollerare la frustrazione, l’autocontenimento e l’autoregolazione. Inoltre, il lavoro profondo sulla personalità permette di individuare le aree di vulnerabilità, e quindi di rischio per eventuali ricadute, per operare una riparazione sulle ferite traumatiche del passato che impediscono la piena realizzazione del potenziale individuale nel presente.

In conclusione, il disturbo alimentare necessita di un intervento terapeutico per lavorare sulle aree della regolazione delle emozioni, della percezione e della stima di sé, delle cognizioni disfunzionali, delle relazioni dentro e fuori la famiglia. Il rapporto col cibo è infatti una metafora di un malessere molto più profondo e radicato, che tiene in ostaggio la vita del paziente, intrappolato tra schemi mentali, rituali, condotte auto-lesive. La terapia ha lo scopo di costruire un rapporto più sano con se stessi e col mondo, imparando a tracciare intorno a sé confini definiti e a sottrarsi a dinamiche relazionali insalubri e trovando nuove fonti di gratificazioni nella propria vita: desideri, passioni, obiettivi.

Bibliografia

Giusti E., Menici F. (2016), Il trattamento dell’immagine corporea, Sovera, Roma

Selvini Palazzoli M., Cirillo S., Selvini M., Sorrentino A.M. (1988), I giochi psicotici nella famiglia,

Raffaello Cortina, Milano

Spalletta E. (2010), Cibo per vivere …vivere per il cibo, Sovera, Roma

Ugazio V. (1998), Storie permesse, Storie proibite, Bollati Boringhieri, Torino

Dott.ssa Marta di Grado 

Dott.ssa Valentina Comiti

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