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QUANDO IL CORPO PARLA

Psicosomatica

Si dice che gola e diaframma siano le bocche del dolore.

Sono gli argini delle emozioni trattenute nel corpo.

Punti di separazione tra la testa, il cuore e la pancia, le stazioni di comunicazione tra i pensieri, le emozioni e gli istinti.

Gola e diaframma, quando sono bloccati e tesi, possono interrompere o frammentare il flusso delle informazioni tra questi tre distretti che hanno funzioni fondamentali quando sono in equilibrio.

Sono tante le circostanze che ci fanno salire un nodo in gola o ci danno un pugno nello stomaco e, via via, gli argini si irrigidiscono.

La gola che si stringe per contenere parole amare, urla disperate.

Lo stomaco che si chiude e brucia di rabbia e tensione.

La gola è il primo argine corporeo che si incontra, ed è infatti l’organo che permette di portare fuori ciò che c’è dentro.

Chi chiude la gola vive generalmente delle difficoltà legate all’espressione della rabbia.

Fa difficoltà a prendere posizione, a esprimere i propri bisogni e, tendenzialmente, mette le altre persone al primo piano.

Lavorando su questo livello, generalmente, le persone riprendono contatto con la propria rabbia che è un motore essenziale per recuperare forza interna.

Ci si sente più carichi, sicuri e determinati.

Spesso si comincia ad alzare la testa e fare delle richieste, e questo produce anche un miglioramento nelle relazioni che diventano più equilibrate e alla pari.

Il lavoro terapeutico sulla gola toglie il primo tappo.

Una mia paziente sui 50 anni, dopo letteralmente una vita ad ingoiare bocconi amari, aveva sviluppato delle persistenti aritmie senza spiegazione medica, insonnia e stati di ansia e allarme.

Era molto preoccupata di aver perso l’entusiasmo e la serenità visto che da mesi ormai si sentiva sempre ansiosa.

Gradualmente emergono i temi di repressione. Una vita ad assecondare gli altri, essere sempre buona e comprensiva, mai arrabbiarsi, tenersi tutto dentro e sperare che presto passi.

Le sue emozioni hanno chiesto aiuto attraverso i sintomi del corpo.

E i sintomi sono spariti quando ha ripreso il contatto con le emozioni che sopprimeva da anni.

Per paura di rompere gli equilibri esterni, le relazioni e quella stasi di apparente sopravvivenza, aveva chiuso tutte le emozioni troppo forti in un baule e, con loro, tutto il suo stesso essere.

Di lei era rimasta una proiezione meccanica e a basso impatto ambientale che aveva l’unico scopo di mantenere calme le acque.

E poi una rabbia esplosiva ha rotto il primo argine per poi rivelare ciò che davvero stava proteggendo: una profonda tristezza.

Un pianto di una bambina che non riesce a controllarsi, quello che non si è concessa da tutta una vita.

Non è il pianto che a volte nella nostra intimità ci concediamo perché c’è qualcosa che non funziona nella nostra vita, questo è un pianto che chi lo vive fa fatica a dargli un senso.

È un pianto senza oggetto, senza ricordi e senza immagini.

È un pianto che contiene solo sentire, che scuote il diaframma e ne rompe l’argine, come nel pianto convulso e nella risata a crepapelle.

Vissuti che non hanno parole né spiegazioni perché, a volte, sono stati impressi quando ancora non eravamo in grado di parlare.

Riattraversare questi abissi permette di liberare la parte di sé che è rimasta bloccata in quel dolore.

Il dolore non ascoltato è una corda di violino tesa che aspetta solo di essere toccata. Per questo, ogni cosa che anche lontanamente richiamerà quel dolore o parti di esso, riecheggerà nel presente.

Le relazioni, per esempio, sono teatri perfetti per queste sinfonie.

Si scopre che tutta l’architettura di vita era costruita secondo il presupposto di evitare qualsiasi tipo dolore e quindi anche i conflitti, i rifiuti e le scelte, fondamentalmente.

Un’architettura intera per proteggersi dall’angoscia di separazione.

Quanto più brava e buona sono, tanto più verrò amata.

Quanto più verrò amata, tanto più mi resterai accanto.

Sono persone che non amano il cambiamento, anzi ne hanno timore.

Spesso hanno avuto una mamma molto protettiva ma poco affettiva fisicamente/emotivamente, oppure una mamma ansiosa e distratta.

Talvolta hanno assistito anche a conflittualità in famiglia.

Hanno un profondo bisogno di vicinanza ma, allo stesso tempo, temono le nuove relazioni perché li espongono alla possibilità di essere rifiutati.

Ricontattare quell’angoscia significa smettere di averne paura.

Non è più l’uomo nero che fa paura solo perché non ne vedi il volto.

È un sentimento che hai attraversato e che ti ringrazierà lasciandoti libera dall’infestazione del suo fantasma.

Il corpo non ha più bisogno di segnalarti l’allarme attraverso i sintomi.

Hai guardato in faccia la minaccia e hai spento l’interruttore.

Poco a poco si libera il cuore che per anni è rimasto congelato e, come uno scrigno, schiude l’entusiasmo, la connessione autentica con gli altri, il coraggio e l’amor proprio.

Dobbiamo avere fiducia nel nostro sentire e nella capacità del corpo di comunicare con noi.

Poniamo fine a quest’era della supremazia della testa e del pensiero.

La vecchia storia di cogito ergo sum non funziona più.

Le nostre teste sono infestate dai giudizi, dalle etichette, dalle inibizioni, dai più fantasiosi travestimenti dell’ego.

Se credete così tanto alla vostra testa, vi perderete l’opportunità di vivere davvero appieno la vita.

Vi mancherà sempre qualcosa per realizzarvi o per sentirvi davvero amati.

Vorrete raggiungere a tutti i costi quel traguardo impregnato del bisogno compulsivo di riconoscimento che, prima che mai si trasformerà nel bisogno di raggiungere qualcos’altro.

Cercherete senza sosta la soddisfazione senza sapere che avete un tesoro già in tasca.

Ci vuole impegno e desiderio di incontrarsi in tutte le proprie parti, perché l’unico modo per sentirci al sicuro e accettati dagli altri è far sì che dentro noi stessi sia un posto sicuro, per essere noi i primi ad accettarci.

La vera angoscia di separazione di cui prendersi cura non è quella dagli gli altri.

È la separazione che è in atto da se stessi.

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